Storie di calcio: Gianluca De Ponti

Gianluca “gil” De Ponti, attaccante fiorentino, sordì in Serie A poco più che ventitreenne, il 12 ottobre 1975, con la maglia del Cesena alla “Fiorita”, contro la Roma. Nel club romagnolo era arrivato dalla Sangiovannese, società nella quale aveva realizzato, in Serie C, 14 gol in 32 partite.

Cresciuto nell’Impruneta e trasferitosi successivamente alla Terranuovese, in quattro stagioni tra i dilettanti aveva realizzato 62 reti. A Cesena rimase per due stagioni, 30 presenze e 9 gol, per trasferirsi successivamente al Bologna, all’Avellino, alla Sampdoria ed all’Ascoli.

Nella città campana realizzò il suo primato personale di reti in massima divisione, otto (realizzò 10 reti con la maglia della Sampdoria nella stagione 1980-1981, ma in Serie B) e rientrò a Bologna nell’estate del 1982, dopo la prima retrocessione dei felsinei in Serie B. De Ponti seguì i rossoblu anche in Serie C1 per poi contribuire, pur con una sola rete all’attivo, all’immediato ritorno fra i cadetti della stagione 1983-84.

Nel 1985 si trasferisce nel campionato maltese con la maglia dello Żurrieq, dove già milita il suo ex-compagno dei tempi del Bologna Adelmo Paris, e con cui vince la classifica cannonieri nella stagione 1985-1986 con 8 reti all’attivo

In carriera ha totalizzato complessivamente 143 presenze e 35 reti in Serie A e 58 presenze e 15 reti in Serie B. (Wikipedia)

Hai avuto tanti allenatori…
«Molti: Corsini, Rosati, Ferrano e Neri, Marchioro, Pesaola, Cervellati e Marchesi…»

– Qualcuno al quale devi qualcosa?
«Per esempio Cervellati, l’uomo che mi ha voluto a Bologna. Poi ho altri buoni ricordi, ma Corsini non mi faceva giocare, altri non mi capivano…»

– Lo sai cosa si dice di te?
«Se ne dicono troppe…»

– Si dice che non hai fondamentali.
«Vero, verissimo, ma cosa vuoi che abbia i fondamentali quando mi sono affermato che avevo già più di vent’anni? Sono arrivato a certi livelli sul ventuno-ventidue anni, sapevo quel che sapevo, nessuno ormai poteva affinarmi più. Avevo giocato solo in Promozione, ero un istintivo e lo sono anche ora»

Basket: compie 70 anni uno dei miei miti di sempre, Dino Meneghin

Era il 1984, non riesco a ricordare giorno e mese, con la mia squadra di baket di allora, il PGR Orsal di Ancona, categoria Ragazzi, andai a giocare a Fabriano, quello che allora chiamato il palasport nuovo, oggi PalaGuerrieri, la gara di campionato contro l’Honky la cui prima squadra miltava in A1.

Massi e DINO MENEGHIN - Siena ottobre 1999
  Max con Meneghin nella sala stampa del palasport di Siena, ottobre 1999 (Foto scattata da Cristiano Franchini – archivio Max Serenelli)
Ovviamente l’impianto era vuoto ma fu un’emozione incredibile perché nei tabelloni segnapunti erano ancora scritti i nbeomi delle due compagini che, tre giorni prima, disputarono la loro gara di campionato: beh, la squadra in trasferta era la Mitica Olimpia Milano, al tempo sponsorizzata Simac, allenata da Dan Peterson, in cui militavano cestisti del calibro di Robero Premier, Renzo Bariviera, Franco Boselli, Vittorio Gallinari,Mike D’Antoni e soprattutto Dino Meneghin, in NUMERO UNO dei giocatori di basket italiani, l’unico tra gli azzurri ad essere entrato nella HALL OF FAME (Cesare Rubini lo fu in qualità di allenatore), l’EROE di Nantes ’83, in poche parole, il mio Mito di sempre.
Purtroppo, per vari motivi, non sono riuscito a vederlo giocare dal vivo così dovetti aspettare quindici per incontrarlo di persona: avvenne a Siena in occasione di una partita di campionato tra la Mens Sana MPS e la VL Scavolini Pesaro, nel periodo durante il quale seguivo i “cucinieri”  per un emittente tv marchigiana, Teleadriatica.
Il grande Dino mi sembra di ricordare che collaborasse con Raisport in qualità di commentatore tecnico per le dirette del sabato pomeriggio, quando ancora si aveva la possibilità di vedere in tv e in chiaro, il grande Basket, così appena lo vidi, colsi al volo l’occasione per regalarmi una fotoricordo con lui.
Tantissimi auguri Dino!

Calcio amarcord: l’Italia del mondiale 1978, una delle più belle di sempre

“Secondo me, la squadra del Mondiale argentino era più forte persino di quella del 1982. Era metà Toro e metà Juve, che stranezza. Lei pensi all’attacco: Bettega, Pulici, Graziani, Rossi. Potevamo vincere ma qualcuno, lassù, non voleva. E non sto parlando di entità divine. Ma del fatto che, guarda caso, Benetti ed io abbiamo visto la partita decisiva con l’Olanda dalla tribuna. Un uso sapiente dei cartellini ci aveva messo fuori. La verità è che noi eravamo la squadra che gli Argentini temevano di più. Li avevamo battuti giocando un calcio spettacolare, con quel bellissimo gol di Bettega. E quell’anno l’Argentina, per ragioni anche extra calcistiche, i Mondiali doveva vincerli, anche se non era certo la migliore squadra biancoceleste che io abbia conosciuto”.
(Marco Tardelli)

L’Argentina vinse il Mondiale 1978 con un tecnico dichiaratamente di Sinistra.
La Junta Militar, a fini propagandistici e per arrivare all’agognata vittoria Mundial, lo confermò in panchina, nonostante le palesi divergenze politiche.
“El Flaco” Luis Cesar Menotti agli occhi del Generale Videla e soci era l’unico uomo in grado di portare al successo la formazione sudamericana, che poteva contare su ottime individualità come capitan Passarella, il motorino Ardiles e “Matador” Kempes.
Famoso il proclama lanciato da Menotti ai suoi ragazzi prima dell’incontro decisivo al Monumental di Baires negli spogliatoi.
“Non vinciamo per quei figli di puttana. Vinciamo per alleviare il dolore del popolo”.

Otto titolari juventus più Cuccureddu per l’infortunio di Bellugi in campo nella vittoria in casa dell’Argentina. In più solo Antognoni ed un Paolo Rossi che in effetti era ancora della Juventus(in cui era cresciuto) perche’ Farina (Vicenza) non ebbe i soldi per il riscatto

Quei mondiali si sarebbero dovuti giocare in Colombia. Immaginate una manifestazione del genere proprio in quegli anni, in una nazione che stava passando un periodo mooooolto particolare. E si rischiò addirittura che non fossero giocati nemmeno in Messico per un terremoto che lo colpì qualche mese prima.

Calcio, amarcord: Jürgen Croy

Jürgen Croy (Zwickau, 19 ottobre 1946) è un allenatore di calcio ed ex calciatore tedesco orientale, dal 1990 tedesco, di ruolo portiere.

È considerato il miglior portiere che la Germania Est abbia mai avuto ed insieme a Hans-Jürgen Dörner fu l’unico giocatore a vincere per tre volte il premio di calciatore tedesco-orientale dell’anno.

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Impegnò tutta la sua carriera, dal 1965 al 1981, nella squadra della sua città natale, il BSG Sachsenring Zwickau. Con la squadra biancorossa giocò 372 partite in DDR-Oberliga e rifiutò di trasferirsi in squadre più blasonate come Dinamo Dresda, Carl Zeiss Jena o Magdeburgo rinunciando di conseguenza a giocare in competizioni internazionali di una certa levatura.

Con la Germania Est debuttò il 17 maggio 1967 a Helsingborg contro la Svezia con vittoria per uno a zero—in quella stessa partita debuttarono altri due poi famosi giocatori tedesco-orientali, Bransch e Loewe—e fu uno dei pochi calciatori tedesco orientali a giocare stabilmente nella selezione pur non essendo tesserato per una squadra relativamente importante. Collezionò un totale di 94 gettoni in Nazionale A e l’ultima sua apparizione avvenne il 19 maggio 1981 (esattamente 14 anni e due giorni dopo il debutto) a Senftenberg nel cinque a zero contro Cuba. Partecipò al campionato del mondo 1974, l’unico a cui prese parte la sua Nazionale, e alle vittoriose Olimpiadi di Montréal 1976.

Calcio, amarcord: Massimo Palanca, il “portorecanatese di Catanzaro”

Massimo Palanca (Loreto, 21 agosto 1953) è un ex calciatore italiano.

Raggiunse l’apice della sua carriera con la maglia del Catanzaro tra la metà degli anni 1970 e la fine degli anni 1980. Acquisì particolare fama per le sue marcature su calcio d’angolo: 13 i gol complessivi realizzati direttamente da corner.

 

Nativo di Loreto, crebbe a Porto Recanati con papà Renato, mamma Liliana, un fratello, Gianni, anch’esso calciatore, e sette sorelle.

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Il “corner”, la specialità di Massimo Palanca (Foto: archivio Max Serenelli)

Dopo aver segnato 18 gol col Camerino nel 1972 in Serie D, iniziò tra i professionisti in Serie C con il Frosinone. Con i gialloblù realizzò 17 reti in 38 incontri risultando il capocannoniere nel girone C della Serie C 1973-1974. Nella stagione 1974-75, dopo il mancato trasferimento alla Reggina, passò al Catanzaro. Al primo anno, sfiorò la promozione in serie A, perdendo, in campo neutro a Terni, lo spareggio promozione contro il Verona. L’anno seguente, tuttavia, ebbe modo di rifarsi, conquistando la sua prima promozione in serie A, seconda per il Catanzaro.

L’esordio in Serie A avvenne il 3 ottobre 1976 in Catanzaro-Napoli, chiusasi sullo 0-0. Fu capocannoniere della Serie B nella stagione 1977-78 con 18 reti, stagione culminata con la seconda promozione personale in massima Serie. L’anno seguente, si laureò capocannoniere della Coppa Italia 1978-1979, trascinando il Catanzaro fino alle semifinali. Sempre in quella stagione, rimasero nella memoria di tutti, catanzaresi e non, le tre reti (di cui una direttamente dal calcio d’angolo) segnate allo stadio Olimpico durante l’incontro con la Roma del 4 marzo 1979, finito 3-1 per i giallorossi di Calabria.

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Uno dei momenti topici della sua carriera (Foto: dal web)

l gol segnato direttamente dalla bandierina non è casuale per quello che a Catanzaro venne definito “L’imperatore” dalla Curva Ovest. In carriera ne ha segnati 13, tutti col piede sinistro. Il 19 dicembre 1979 giocò a Genova nella Nazionale “Sperimentale” di Enzo Bearzot, contro la Germania Ovest. Nella stagione più fortunata per la squadra calabrese (7º posto nel campionato di Serie A 1980-81), segnò 13 reti, risultando il miglior marcatore del campionato dietro a Pruzzo. È stato il miglior cannoniere del Catanzaro in Serie A con 37 reti. Le sue presenze complessive in giallorosso sono 331, le reti 115.

Nella stagione 1981-82 venne ceduto al Napoli dove non riuscì più a realizzare i colpi che l’avevano reso famoso. Segnò un solo gol e l’anno successivo si trasferì in prestito al Como in Serie B, dove riuscì a segnare solo due volte (contro il Milan con una punizione il 5 dicembre, e contro il Campobasso su rigore il 5 giugno). Richiamato a Napoli, presunte incomprensioni con l’allenatore Rino Marchesi e un solo gol in diciannove incontri lo fecero precipitare in Serie C2 a Foligno, dove siglò 18 reti in 47 incontri tra il 1984 e il 1986.

 

Tornato a Catanzaro nella stagione 1986-87, in Serie C1, ritrovò lo smalto degli anni migliori, trascinando la squadra alla promozione con 17 reti in 29 gare, risultando anche il capocannoniere del torneo. A Catanzaro restò altre tre stagioni, in serie B, fino al suo ritiro dal calcio nel 1990 nelle quali realizzò 28 reti collezionando 97 presenze, mancando per un solo punto, nella stagione 1987-88, una nuova promozione in serie A (anche per via di un rigore sbagliato contro la Triestina).

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Massimo Palanca ospite nell’estate 2019 della festa dei 100 anni di fondazione del Portorecanati  (Foto: Max Serenelli)

In totale nella sua carriera ha collezionato, nei campionati professionistici, 478 presenze, di cui 147 in serie A, con 115 i gol messi a segno (39 in serie A). 36 sono state invece le presenze in Coppa Italia, con 22 gol. Ha conquistato 4 volte il titolo di capocannoniere: nel 1973/74 con il Frosinone in Serie C (18 reti in 38 partite); nel 1977/78 con l’U.S. Catanzaro in Serie B (18 reti in 32 partite); nel 1978/79 con l’U.S. Catanzaro in Coppa Italia con 8 reti in 7 partite; nel 1986/87 ancora con il Catanzaro in C1 (17 reti in 29 partite). Tre sono state le promozioni raggiunte, tutte con il Catanzaro: nel 1975/76 e nel 1977/78 dalla Serie B alla Serie A; nel 1986/87 dalla C1 alla Serie B.

Calcio, amarcord: la leggenda del Grande Torino

By Il Grande Torino.net:

Nessuna squadra al mondo ha mai rappresentato per il calcio tutto ciò che è riuscito al Grande Torino.
L’Italia in quegli anni era reduce da una guerra perduta, avevamo poca credibilità internazionale e furono le gesta dei nostri campioni a rimetterci all’onore del mondo: Bartali, Coppi, il discobolo Consolini, le macchine della Ferrari e appunto il Grande Torino che, essendo una squadra, 

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dimostrava a tutti come un popolo di individualisti come gli italiani sapessero far fronte comune per dare vita al più bel complesso di calcio mai visto e mai più comparso su un campo di calcio.
La Juventus del Qinquennio, il Real Madrid, il Santos, la Honved, l’Inter di Herrera, l’Ajax e il Milan degli olandesi hanno rappresentato, è vero, eventi tecnici straordinari, ma nessuno ha pareggiato il Grande Torino.

I granata, guidati da Valentino Mazzola, il capitano dei capitani, hanno record strabilianti e assolutamente irripetibili. Bastava, per esempio, uno squillo del trombettiere del Filadelfia perchè si scatenassero. Leggendaria, per esempio, una partita romana quando il Grande Torino, in svantaggio di un gol nel primo tempo contro i giallorossi, stabili negli spogliatoi, durante il riposo, che non si doveva più scherzare. Fu così che vennero segnati 7 gol a dimostrazione che quella squadra vinceva come e quando voleva.

Non per nulla l’11 maggio del 1947, Vittorio Pozzo, il commissario tecnico della Nazionale, vestì dieci granata d’azzurro per una partita disputata a Torino contro l’Ungheria.

I nostri eroi naturalmente vinsero. E avrebbero continuato a vincere su tutti i fronti se non fosse sceso in campo il destino più tragico per fermarli. Ma non per batterli. Perchè quella squadra di grandi uomini e di grandi campioni è passata direttamente alla leggenda

Cacio, amarcord: Bruno Nobili

Nasce a Valencia, in Venezuela, ma è di nazionalità italiana. Cresce nelle giovanili della Roma, con cui esordisce in Serie A (con Helenio Herrera) il 27 aprile 1969, nello 0-0 interno contro il Varese. Nelle annate successive viene ceduto, prima in prestito e poi definitivamente, nelle serie inferiori, alla Maceratese e quindi all’Avellino, con cui realizza 12 reti e ottiene la promozione in Serie B. Nel 1973 torna in Serie A, acquistato dal Cagliari: in Sardegna è poco impiegato (13 presenze), tuttavia realizza il suo primo gol nella massima serie, il 17 febbraio 1974 nella vittoriosa trasferta sul campo del Torino.

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Nella stagione successiva si trasferisce al Pescara, neopromosso in Serie B. Ne diventerà bandiera e capitano, giocandovi fino al 1982 e conquistando da titolare due promozioni dalla B alla A, tra cui la prima del club abruzzese, nel 1977. Con gli adriatici è il capocannoniere nel primo anno in A con 5 realizzazioni, in un’annata che vede la retrocessione a fine stagione.

Chiude la carriera disputando tre stagioni nelle file del Francavilla, in Serie C1. In carriera ha totalizzato complessivamente 64 presenze e 11 reti in Serie A e 198 presenze e 28 reti in Serie B

Dopo il ritiro inizia la sua carriera da allenatore che lo vede sedersi su molte panchine di squadre di Serie C e dilettanti. Debutta in Abruzzo, sulle panchine di Francavilla (nella Serie C2 1985-1986, nel corso della stagione fu sostituito da Antonio Giammarinaro e poi richiamato in sostituzione di questi), e Avezzano, con cui vince il campionato di Promozione Abruzzo 1986-1987 nel quale la formazione marsicana ottiene 13 vittorie consecutive. In seguito guida il Castel di Sangro, e nel campionato di Serie C2 1992-1993 debutta su una panchina professionistica, subentrando a William Barducci al Gualdo, con cui ottiene la salvezza.

L’Avezzano 1986-87 allenato da Nobili

Nel 1993 torna in Abruzzo, con L’Aquila, che allena in due riprese intervallate da una stagione nella Fermana. Nella stagione 1997-1998 torna a Macerata da allenatore, prima di tentare l’avventura nel Fiorenzuola, sempre in Serie C2: in Emilia non conclude la stagione, esonerato a favore del duo Bozzi-Conca. Non ha maggior fortuna l’anno successivo, quando viene chiamato alla Renato Curi Angolana, in Serie D, dove non evita la retrocessione in Eccellenza.

Nella stagione 2002-2003 torna al Castel di Sangro, subentrando ad Alberti e venendo esonerato poco prima del termine della stagione, conclusa con la retrocessione. Nel dicembre 2003 subentra sulla panchina del Francavilla, che conduce fino alle semifinali della Coppa Italia Dilettanti, perse contro il San Paolo Bari.

Il 6 marzo 2013 viene nominato nuovo vice-allenatore del Pescara (di cui aveva già allenato la formazione Primavera), affiancando per motivi di patentino Christian Bucchi dopo l’esonero di Cristiano Bergodi

Calcio, amarcord: la favola del Malines he vinse la Coppa delle Coppe 1988

Mercoledì Coppa Uefa, Coppa dei Campioni e Coppa delle Coppe, salvo rare eccezioni. Un mantra che il tifoso degli anni ’80 ricorda bene. La settimana calcistica europea era lunga al massimo due giorni, con tre competizioni cariche di un fascino particolare. I diritti tv non avevano precedenze, la logica (illogica) degli anticipi e posticipi non ancora neanche considerata. I giorni erano fissi, le sfide all’ultimo sangue erano consuetudine e il prestigio era immenso. Forse le annate più entusiasmanti e ricche di colpi di scena ci sono state donate dalle squadre che giocavano quella competizione ormai scomparsa. Da quella Coppa delle Coppe spazzata dal tempo e dai gironi in loop della Champions, strumento pronto a rispondere alla richiesta continua di più partite. Quel torneo metteva contro, in un torneo ad eliminazione diretta con turni di andata e ritorno fino alla finale unica, tutte le vincitrici della coppa nazionale. Ma la chicca che forse ha permesso a questa competizione di restare impressa nella memoria di questo sport è che in caso di eventuale qualificazione alla Coppa dei Campioni della vincitrice della coppa nazionale, poteva partecipare la finalista perdente della stessa senza però l’obbligo di essere nella massima serie.

Malines Mechelen Ajax 87-88

Tanti i ricordi: il Tottenham nel 1963 che vince il primo trofeo di una squadra inglese, l’Anderlecht, l’Aberdeen che sconfigge il Real Madrid, l’Everton, la Sampdoria futura campione d’Italia, il Magdeburgo con il suo unico trofeo conquistato da una rappresentante della Germania Est. Gesta eroiche e match memorabili. 180 minuti giocati al massimo per superare il turno e coltivare il sogno di alzare quella coppa. Anche il Mechelen (Malines in italiano) era tra queste, era il 1988, e questa cittadina di 80.000 abitanti nel bel mezzo delle Fiandre, oltre al classico giro ciclistico, salì alla ribalta per la sua squadra di calcio, protagonista di una delle cavalcante più sorprendenti e travolgenti della storia di questo sport.

L’ARRIVO DI CORDIER E DE MOS – Il Koninklijke Voetbalvereniging Mechelen, meglio conosciuta in Italia con il nome di Malines, inizia la sua ascesa nella stagione 1982/1983. Fino ad allora la squadra belga aveva messo insieme qualche titolo nazionale tra l’inizio e la fine della seconda guerra mondiale. Poi un continuo galleggiare tra prima e seconda categoria, per circa 40 anni, fino all’arrivo del miliardario John Cordier, proprietario della società di componenti elettroniche Telindus. Il progetto del magnate era chiaro: ristrutturare le stadio Achter de Kazerme e creare un’organizzazione tale da poter permettere al Mechelen di ritornare ai fasti di un tempo. Il ritorno alla vittoria in campionato magari, un sogno per il neo presidente, ma che diventerà solo una tappa del triennio che vedrà il Mechelen salire sul tetto d’Europa. Il primo tassello fu il tecnico olandese Aad De Mos. Veniva da un ottimo quinquennio all’Ajax dove vinse 3 campionati e una coppa Nazionale ma il suo ciclo nella primavera del 1985 era concluso e così bastò una innocua sconfitta contro l’Haarlem per consentire alla dirigenza di esonerarlo per forti divergenze d’opinione e assumere Johan Cruijff figliol prodigo di ritorno dopo aver chiuso la carriera al Feyenoord. Nel 1986 dopo qualche mese di inattività De Mos venne contattato proprio dal Mechelen e accettò di buon grado quel progetto tanto affascinante quanto utopistico. In sella alla squadra il buon Aad riuscì subito ad ottenere il massimo dai suoi giocatori. Nella sua prima stagione in Belgio (oltre ad un sontuoso secondo posto in campionato) riuscì a conquistare la Coppa Nazionale che all’epoca permetteva alla vincitrice di approdare nell’Europa che conta, la Coppa delle Coppe. Per i valloni era il debutto assoluto in campo continentale.

DEBUTTO BOOM E ARRIVO IN SEMIFINALE – La rosa presentava onesti mestieranti e un vero fuoriclasse Michel Preud’Homme. Portiere efficace e titolare poi della nazionale belga nei Mondiali del ’90 e del ’94 fu il perno dei successi di quella squadra. Il gioco di De Mos non era spumeggiante, non garantiva spettacolo e non puntava a fare la partita. La macchina del Mechelen era efficace, difesa solida come non mai e capacità offensiva quasi scolastica ma tanto tanto pericolosa. Oltre al citato Preud’Homme giocavano Erwin Koeman, Eli Ohana, Piet den Boer, Graeme Rutjes e Marc Emmers. Talentuosi ma di certo non fuoriclasse. La marcia inarrestabile del Mechelen iniziò il 16 settembre del 1987. Dinamo Bucarest battuta 1-0 grazie ad un gol di Piet de Boer, vero mattatore di quella campagna europea. Ritorno senza storia, 2-0 Hofkens e De Boer e belgi agli ottavi. Dall’urna banda di De Mos pescò il St Mirren. Pareggio a reti bianche in casa ma in trasferta devastante uno-due di Eli Ohana che in un quarto d’ora spedì il Mechelen ai quarti. I tifosi erano entusiasti, i giornalisti dell’epoca andavano a caccia di informazioni su questa piccola realtà che in casa si difendeva con ordine e lontana dalle mure amiche riusciva a sorprendere sistematicamente gli avversari. Nei quarti il Mechelen affrontò l’ostica Dinamo Minsk. Il 1 marzo 1988 il piccolo stadio Achter de Kazerne esplose a quattro minuti dal termine del match. Dopo 86 minuti di sofferenza Pascal De Wilde insaccò l’1-0. In Unione Sovietica altro capolavoro. Eli Ohana al 29′ mise in ghiaccio la qualificazione, e non bastò il gol di Kisten a ribaltare il risultato. Il Mechelen era in semifinale!

SEMIFINALE TRA CENERENTOLE CONTRO L’ATALANTA – Qui la storia dei belgi si intreccia con l’altro miracolo sportivo di quell’anno: l’Atalanta di Emiliano Mondonico. I bergamaschi sono in semifinale di Coppa delle Coppe ma disputano contemporaneamente la serie B, ah il fascino degli anni ’80. Sconfitta in finale di Coppa Italia dal Napoli, Stromberg e compagni partecipano alla competizione continentale essendo i partenopei già in gara nella Coppa dei Campioni. Da penultimi in serie A ad un passo dalla finale europea. Emiliano Mondonico dopo 25 anni racconterà: “L’urna dopo il passaggio del turno in Coppa ci regalò il Malines. Una delle squadre più blasonate del momento che aveva alla guida un magnate con grandi possibilità economiche. Le relazione sull’avversario era preoccupante: i giocatori presi ruolo per ruolo erano i migliori del loro campionato. A cominciare dal portiere Preud’homme, per finire con il bomber Ohana, descritto come un’ira di Dio. Non è stato facile preparare la gara dal punto di vista emozionale. Stromberg, il nostro uomo più «pratico» di Europa, invitava tutti a non vedere il demonio dove non c’era”. Il timore era grande, la Cenerentola Atalanta davanti agli occhi di tutta Europa. L’inizio fu shock. Ohana dopo 7 minuti portò in vantaggio i suoi. L’eterno Stromberg in mischia ristabilì la parità. L’equilibrio fu spezzato ancora una volta da De Boer che all’83’ chiuse i conti. L’accesso alla finale si doveva giocare a Bergamo. I nerazzurri in un’autentica bolgia andarono in vantaggio su rigore con Garlini e sfiorarono a più riprese il raddoppio, ma anche in quest’occasione i valloni non si smentirono. Con personalità e innata spensieratezza prima raggiunsero il pari con un sinistro al volo del libero Rutjes e infine con un’azione personale di Emmers sigillarono la vittoria e la conquista di un’insperata finale.

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LA VENDETTA DI DE MOS – 11 maggio 1988, appuntamento con la storia. Finale di Coppa delle Coppe e il Mechelen affronta, guarda caso, proprio l’Ajax la squadra che aveva esonerato 3 anni prima il tecnico De Mos. Gli olandesi in quella stagione avevano ceduto Van Basten e Rijkaard ma avevano in rosa Danny Blind, John Bosman e Arnold Muhren, non poca roba. Quello presente a Strasburgo era però un Ajax in crisi con Cruijff da poco esonerato e sostituito da un triumvirato. I nuovi acquisti languivano in panchina. La vendetta perfetta era nelle mani di De Mos, bastava solo dare la giusta scossa ai ragazzi. Ad aiutarlo fin da subito ci pensò Blind che al 16′ venne espulso. I diecimila tifosi accorsi in Francia iniziarono a crederci. Al minuto 53′ l’apoteosi. Splendido assist di Ohana per Piet Den Boer che senza pensarci due volte si avventa sul pallone e di testa batte 0Stanley Menzo portiere dell’Ajax. E’ il gol vittoria! Michel Preud’Homme blinderà il risultato con una serie di interventi straordinari e al fischio finale la spensieratezza e la fatica lasciano posto alle lacrime e alle emozioni: il Mechelen vince la Coppa delle Coppe. Erwin Koeman festeggerà la conquista di un trofeo continentale e verrà seguito a ruota dal fratello Ronald quindici giorni dopo, quando vincerà la Coppa dei Campioni con la maglia del Psv a Stoccarda.

Finale Coppa delle Coppe 1987/88
11 maggio 1988 – Stade de a Meinau, Strasburgo

KW Mechelen – Ajax 1-0

KW Mechelen: Preud’homme; Clijsters, Sanders, Rutjes, Deferm; Hofkens (Theunis 73), Emmers, E.Koeman, De Wilde (Demesmaeker 60); Den Boer, Ohana

Ajax: Menzo; Blind, Wouters, Larsson, Verlaat (Meijer 73); Van ‘t Schip (Bergkamp 57), Winter, A.Mühren, Scholten; Bosman, Rob Witschge

Arbitro: Dieter Pauli (Germania Ovest)

Reti: 53′ 1-0: Den Boer

CANTO DEL CIGNO E DECLINO – Il Mechelen non si fermerà qui e vincerà qualche mese dopo la Supercoppa Europea ai danni del PSV Eindhoven di Romario. De Mos lascerà la panchina nel 1989 ma non prima di conquistare anche il campionato belga. Il canto del cigno di questa memorabile squadra arriverà in Coppa dei Campionati nell’89-90 eliminata ai quarti dal Milan di Sacchi solo ai supplementari. Da lì il declino lento ed inesorabile. I guai finanziari di Cordier si ripercossero sulla squadra che venne di fatto smembrata. Ohana passò al Braga ma non tornò più ai livelli raggiunti in quella magica stagione, Preud’Homme come detto sarà titolare ai mondiali del 90 e del 94 e continuerà ad essere uno dei portieri più forti della sua generazione. Il centenario del club nel 2004 fu festeggiato nonostante l’assenza di numerose stelle, tra queste Cordier, deceduto proprio pochi mesi prima. De Mos non riuscirà più a trovare l’alchimia perfetta che riuscì a creare in Belgio. Il Mechelen ora, dopo tante annate difficili, è in Jupiler Pro League, la massima divisione belga attualmente. La favola finisce qui con un pizzico di malinconia e una buona dose di rassegnazione. Questo calcio attanagliato dalla crisi, cancellato dal business, difficilmente potrà riproporre una storia così entusiasmante come quella vissuta dai ragazzi del Mechelen. Un sogno divenuto realtà, un gruppo di ragazzi alla prima esperienza europea capace tra lo scetticismo generale di conquistare l’ambito trofeo.

Calcio, amarcord: quando la Fiorentina andò in finale di Coppa dei Campioni

La finale della Coppa dei Campioni 1956-1957 si disputò il 30 maggio 1957 allo Stadio Santiago Bernabéu di Madrid tra il Real Madrid e la Fiorentina. La partita, originariamente prevista per le 20:00, fu anticipata alle 17:30 su richiesta della Fiorentina, non abituata all’epoca a giocare con la luce artificiale. La partecipazione del pubblico fu straordinaria: 124.000 furono, in totale, gli spettatori. Gli spagnoli, che giocavano in casa, vinsero l’incontro per due reti a zero, grazie alle marcature di Di Stéfano e Gento, alzando quindi al cielo il loro secondo trofeo continentale.

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Il Real Madrid giocò il primo turno contro gli austriaci del Rapid Vienna: non fu una sfida facile, le merengues vinsero l’andata in casa per 4-2, ma furono sconfitti al Prater per 3-1; non esistendo ancora il regolamento dei goal fatti in trasferta (che avrebbe per altro decretato il passaggio del turno degli austriaci), si giocò al Bernabéu un terzo incontro che gli spagnoli vinsero con il risultato di 2-0. Quindi ai quarti i blancos superarono facilmente il Nizza, mentre in semifinale eliminarono il Manchester United, vincendo 3-1 a Madrid e pareggiando 2-2 in Inghilterra.

La Fiorentina invece sconfisse al primo turno gli svedesi del Norrköping, 1-1 all’andata e 1-0 al ritorno; ai quarti incontrò gli svizzeri del Grasshopper che superò agevolmente grazie a un netto 3-1 nel match d’andata. In semifinale fu il turno della Stella Rossa di Belgrado sconfitta per 1-0 in Serbia grazie a un gol nel finale di Prini, e pareggiando per 0-0 a Firenze.

Il Real Madrid del 1956-57 non è cambiato molto da quello che alzò la coppa l’anno prima: capitano è sempre Miguel Muñoz, centrocampista difensivo ormai a fine carriera (è la sua nona stagione con le merengues), mentre la porta è affidata ancora ad Adelarpe. In attacco Rial, Gento e di Stéfano sono accompagnati da Raymond Kopa, acquistato in estate dallo Stade de Reims alla discreta cifra di 520.000 franchi. Nessun cambio nemmeno in panchina, squadra affidata sempre a José Villalonga Llorente, che avrebbe abbandonato il Real per passare all’altra squadra di Madrid l’anno seguente

La Fiorentina era affidata a mister Fulvio Bernardini che schierava solitamente in campo la squadra con il classico MM di ispirazione ungherese. Il portiere era un giovane Giuliano Sarti che poi difenderà i pali della grande Inter di Herrera negli anni ’60; mentre la linea difensiva era composta dal capitano Cervato, Orzan e Magnini. I due mediani erano Segato e il giovane Saramucci che sostituiva il titolare Chiappella infortunatosi quattro giorni prima nella partita di qualificazione ai mondiali, giocando una delle sue solo 18 partite con i viola in quattro stagioni. Il centrocampo era composto da quattro giocatori, con un’inattesa variazione rispetto al solito modulo di Bernardini: il brasiliano Julinho, l’italoargentino Miguel Montuori, che totalizzerà anche 12 presenze e due gol con la maglia della nazionale italiana, e gli italiani Gratton e Bizzarri; unica punta era Giuseppe Virgili, giocatore dallo score certamente non altissimo per un attaccante: 10 gol in 22 presenze in quella stagione.

Il primo tempo si presenta equilibrato: la Fiorentina dimostra di riuscire a tener testa al più forte Real Madrid, si va al riposo sullo 0-0 e anche il secondo tempo inizia sulla falsariga del primo, cioè con un grande equilibrio tra le forze in campo. Al 69′ però, Mateos si invola nel centrocampo viola, spaccando letteralmente in due la difesa avversaria e avviandosi uno contro uno verso Sarti, Magnini lo insegue e lo sgambetta fuori dall’area, ma l’arbitro non ha dubbi e fischia un calcio di rigore; inutili le proteste viola, di Stéfano va sul dischetto e segna il gol dell’1-0.

I viola si lanciano disperatamente in avanti alla ricerca del pari, ma il Real può difendersi e ripartire in contropiede, cosa che fa al 76′ con Gento, il quale arriva indisturbato davanti a Sarti e lo batte per il gol del 2-0 che chiude l’incontro: le merengues hanno vinto la loro seconda Coppa dei Campioni.

Calcio amarcord, biografie: Gianfranco Casarsa

Foto: Calcio totale – dalle origini ad oggi

Gianfranco Casarsa, nato ad Udine il 28 marzo 1953 è un ex allenatore di calcio ed ex calciatore italiano, era attaccante che partecipava alla manovra offensiva, fisicamente potente e dotato di buona tecnica. Aveva la particolarità, all’epoca singolare e unica, di calciare i rigori da fermo.

Dopo i primi calci al pallone nell’oratorio, Casarsa fece diversi provini per squadre di Serie A e B, prima di approdare nella SPAL allenata da Paolo Mazza. In maglia biancazzurra esordì in Serie C a 18 anni nel campionato 1970-1971, per poi venir ceduto in comproprietà l’anno successivo in Serie D al Bellaria.

A fine stagione, non trovando l’accordo per il riscatto, SPAL e Bellaria convennero di cederlo a una squadra di categoria superiore e, nel 1972 il giovane attaccante friulano venne acquistato dal Bari, con cui disputò due campionati di Serie B.

Dopo che i pugliesi retrocedettero in Serie C, nella stagione 1974-1975 passò alla Fiorentina ed esordì con la maglia azzurra nella rappresentativa Under-23. In viola si impose subito come titolare fin dalla prima stagione, nella quale con 7 reti all’attivo risultò il capocannoniere dei toscani in campionato, e contribuì al successo nella Coppa Italia 1974-1975 con una rete a testa al Napoli nel girone semifinale e al Milan in finale.

Curioso l’episodio che lo vide protagonista dell’eliminazione d’ufficio della Fiorentina al primo turno della Coppa UEFA 1977-1978. Fu infatti schierato in campo nella sfida interna di andata contro i tedeschi d’Occidente dello Schalke 04, conclusasi sullo 0-0, ma dopo l’incontro emerse che non poteva essere inserito nella distinta di gara per via di una vecchia squalifica non ancora scontata: i toscani ebbero pertanto partita persa a tavolino per 0-3. Al ritorno a Gelsenkirchen i padroni di casa si imposero comunque 2-1.

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Casarsa alla Fiorentina

Passato al Perugia nell’estate del 1978, con la squadra umbra disputò tre stagioni, contribuendo nel campionato 1978-1979 allo storico secondo posto dietro al Milan e al record d’imbattibilità. Nell’annata seguente fu inizialmente coinvolto nel scandalo calcioscommesse, a seguito del quale il 23 marzo 1980 fu arrestato, ma venne poi assolto al processo sportivo (oltre che prosciolto, come tutti gli altri imputati, a livello penale).

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Casarsa ai tempi del Perugia

Nell’estate del 1980 ebbe un grave infortunio a un ginocchio mai completamente assorbito, che lo costrinse al ritiro al termine del campionato di Serie C2 1983-1984 disputato con la Massese. In precedenza aveva disputato, con sole 8 presenze in campionato, la stagione 1981-1982 in massima serie con la maglia dell’Udinese, squadra in cui aveva trovato un suo perfetto omonimo: si chiamava infatti Gianfranco Casarsa anche l’allora massaggiatore dei friulani.

In carriera ha totalizzato complessivamente 166 presenze e 25 reti in Serie A, e 63 presenze e 10 reti in Serie B.